Momenti di profonda commozione hanno segnato sabato pomeriggio l’iniziativa al Teatro Bismantova “Il Libro dell’Incontro”, che ha cercato di raccontare un percorso unico di giustizia riparativa, sviluppato nel corso di diversi anni, per arrivare a far incontrare ex protagonisti della lotta armata, che poi hanno compiuto una scelta di allontanamento e ripudio della violenza, e vittime di quella violenza. Un percorso che poi è stato raccontato appunto in un libro dallo stesso titolo (edizioni il Saggiatore). A raccontarlo sono stati Agnese Moro, figlia di Aldo Moro; Franco Bonisoli, ex membro delle Brigate Rosse; Giorgio Bazzega, figlio di Sergio, Maresciallo ucciso dalle BR nel 1976; Maddalena Crippa, attrice, che ha fatto parte del gruppo di Giustizia riparativa.
Dopo il saluto del Vicesindaco Emanuele Ferrari, Giovanni Mareggini, Direttore Artistico del Teatro, ha ricordato don Vittorio Chiari, molto attivo anche in Appennino, per il suo ruolo di avvicinamento e coinvolgimento nelle prime iniziative di dialogo e costruzione di “ponti” con i protagonisti della lotta armata, in particolare collaborando ad Arese proprio con Bonisoli.
I testimoni presenti hanno quindi raccontato questo percorso davvero denso, difficile, profondo, che trascende e va oltre la semplice ricostruzione storica di un momento che è comunque stato centrale per la storia del nostro Paese, che va anche al di là di concetti come offesa e perdono, e oltre una narrazione mediatica che molte volte è stata troppo semplicistica di quegli anni.
Angese Moro ha aperto le testimonianze: “Per anni ho vissuto gli effetti dell’orrore, dell’odio, del rancore, e anche del senso di colpa perché mi dicevo che per 55 giorni non ero riuscita a fare qualcosa per aiutare mio padre. Da questa sofferenza è nato un desiderio di giustizia, per lui e per noi, e quello che la società poteva offrirmi era la giustizia penale, che è sicuramente giusta ma per me non era sufficiente. I miei problemi rimanevano: c’era come un elastico che pur andando avanti nella mia vita, negli affetti, nella famiglia, mi teneva ancorata sempre al passato. Nella tua vita arrivi a capire che i morti arrivano ad assumere uno spazio più grande rispetto ai vivi. Ed arrivi a capire che c’è una catena del male, che da un atto produce effetti molto al di là di quello che gli stessi autori di tale atto potevano prevedere, e colpisce attraverso i tuoi sentimenti anche le persone che hai vicino. E ho scelto che questa catena non avesse più effetti sul presente. E in quel momento è arrivato padre Guido Bertagna che mi ha contattato per spiegarmi che aveva organizzato un primo gruppo di persone vittime del terrorismo e delle stragi, e persone che avevano preso parte alla lotta armata, e questo gruppo dava la possibilità alle persone che lo desideravano di farne parte e mi ha chiesto se volevo partecipate. E io ho detto di no, perché mi sembrava di rompere una solidarietà tra le vittime, e pensavo che avrei anche messo in crisi la mia famiglia. Guido ha insistito, probabilmente comprendendo il dissidio che stavo vivendo, e inizialmente ho partecipato a una riunione solo di vittime, e ho incontrato persone che avevano iniziato questo percorso. Poi Franco Bonisoli ha fatto sapere che avrebbe tenuto molto a incontrarmi. È venuto a trovarmi a Roma con i mediatori di questo percorso, Guido, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, e mi ha portato una pianta, una cosa viva. E sono rimasta colpita, non ho voluto chiedergli nulla di allora, ho voluto capire chi era, perché per me queste persone erano dei mostri, persone che hanno distrutto delle vite, e lui mi ha raccontato il suo percorso, il carcere, ma anche il suo affetto per i figli. Ha sconvolto le mie idee su di lui, e ho riconosciuto un essere umano. Il mio mondo ha iniziato a cambiare, lentamente, con difficoltà, ma ho scelto di prendere parte al gruppo. Ho incontrato persone che erano assassini, ma provavano anche loro un dolore profondo, che avevano capito il portato delle loro azioni e ne erano devastati, ho capito che era un dolore terribile anche questo. Oggi provo un grande senso di gratitudine per questo percorso e per i mediatori che lo hanno reso possibile”.
Franco Bonisoli ha aggiunto: “Quando avevo 19 anni ho fatto una scelta totalizzante, a cui ho donato la mia vita, che mi ha allontanato dalla mia famiglia per farmi diventare un rivoluzionario a tempo pieno, con la convinzione di lottare per un mondo più giusto. Ho fatto quattro anni di vita clandestina, per una rivoluzione che comprendeva anche l’uso della violenza come modo di arrivare a imporre le idee politiche. Noi agivamo “reificando” le nostre vittime, non riconoscendole come persone ma identificandole solo nel loro ruolo, e accettavamo la violenza perché eravamo consapevoli che avremmo potuto anche noi perdere la vita o finire all’ergastolo. Sono stato arrestato a 23 anni, e sono entrato nel circuito delle carceri di massima sicurezza, durissimo, e inizialmente questo regime carcerario non ha scalfito le mie convinzioni, anzi rafforzava l’idea di uno Stato violento. Ho subito diversi processi, conclusi sempre con condanne all’ergastolo. Ma noi non riconoscevamo questa giustizia, perché non riconoscevamo lo Stato. Poi, dopo qualche anno, iniziai a comprendere che il nostro programma era fallito, a percepire la sconfitta, e i morti che ci eravamo lasciati dietro avevano sempre meno senso. Entrai in una crisi profondissima. Non vedevo davanti a me nessuna via di uscita, non c’era la possibilità di rientrare nella società e poter vedere altre prospettive di vita, e questa stessa sensazione era condivisa da altri protagonisti della lotta armata che incontravo in carcere. L’unica via di uscita sembrava un abbandono della vita, e così iniziammo uno sciopero della fame, che non voleva rivendicare ma era conseguente a questa percezione. Quando eravamo ormai prossimi all’alimentazione forzata nell’ospedale del carcere di Nuoro, don Salvatore Bossu, cappellano del carcere, ci avvicinò e rifiutò di celebrare la messa di Natale per sensibilizzare sulla nostra condizione, che cominciò a uscire sui giornali e ottenemmo i primi segnali di apertura. Per me, che venivo da un ambiente di “mangiapreti”, fu un nuovo momento scioccante. Poi ci furono riforme giudiziarie che modificarono il regime carcerario, ed ebbi i contatti con coloro che venivano a fare volontariato nelle carceri, gratuitamente. Queste manifestazioni mi colpirono e cambiarono. Poi, proprio quando ho concluso, dopo 22 anni grazie a queste riforme e alla buona condotta, la mia pena carceraria, proprio allora si aprì in me una questione morale, che prima non avvertivo così forte perché sapevo che stavo pagando le mie azioni: volevo incontrare chi era stato vittima della mia scelta di violenza. Sentivo un peso e un dolore enorme. Non sapevo se questo mio desiderio avrebbe avuto la possibilità di concretizzarsi, e poi è arrivato questo gruppo, nel quale ho avuto la fortuna di essere tra i primi a entrare. Poi l’incontro con Agnese, che per me è stato straordinario e devastante: mi aspettavo toni aspri, che mi chiedesse informazioni sul passato, e invece mi ha accolto, e mi ha riconosciuto come persona, ha voluto sapere chi ero diventato. Eravamo entrambi disarmati. È stata per me una esperienza fondamentale, che mi ha permesso un altro passo verso quel ritorno alla vita che non pensavo possibile”.
Anche Giorgio Bazzega ha raccontato la propria esperienza personale, molto dura, e come il gruppo di incontro abbia rappresentato l’uscita da un desiderio di vendetta covato per molti anni: “Mio papà è morto quando avevo 2 anni e mezzo: insieme al vicequestore di Sergio San Giovanni Vittorio Padovani erano andati a casa di un brigatista 21enne, Walter Alasia, che è uscito dalla sua camera armato, ha sparato uccidendo subito Padovani. Mio padre aveva una mitraglietta, ma non ha voluto rispondere al fuoco perché sulla linea di tiro c’erano anche i genitori e il fratello di Alasia, così ha provato a disarmarlo ma è stato colpito. Mi piace pensare che mio padre è morto per difendere delle vite oltre che nell’adempimento del suo dovere. Io ho avuto una infanzia comunque serena, trascorsa tra l’altro tra Felina, Villaberza e Gombio, ma quando avevo 13, 14 anni mi arrivò come un pugno la notizia della scarcerazione di Renato Curcio. Curcio era colui che aveva armato di fatto la mano di Alasia, in quel momento mi sentii tradito dallo Stato e avevo solo una gran voglia di vendicarmi. I miei dissidi interiori mi hanno lacerato, e portato anche a una forte dipendenza da cocaina e altre droghe, ho evitato soltanto l’eroina. Sono arrivato a toccare il fondo, e dopo un primo tentativo di recupero fallito, ho avuto quello che si chiama il “momento di lucidità” e ho capito che non volevo più andare avanti così. Poi ho cominciato a frequentare incontri dell’Aiviter, l’associazione italiana vittime del terrorismo, ma i toni di quelle riunioni erano comunque molto fermi nel tenere le distanze e condannare chi aveva fatto parte della lotta armata. Il mio rancore non calava. Una volta a una di queste riunioni ho incontrato Manlio Milani: Milani aveva avuto un trauma che era anche peggio del mio, era in piazza alla Strage di Brescia, era rimasto qualche metro indietro dalla moglie, e l’ha vista saltare in aria con la bomba. Eppure riusciva a parlare della sua situazione, del suo dolore, con calma e serenità. Ho voluto conoscerlo meglio, capire. Poi sono arrivati i primi contatti con il percorso di giustizia riparativa: ricordo che al primo incontro con ex della lotta armata a cui partecipai intervenni, dissi chi ero, e poi “io vi volevo ammazzare tutti”. Mi aspettavo una reazione uguale e contraria, che sarebbe stata per me anche semplice da gestire, era il modo in cui ero abituato a confrontarmi, invece trovai comprensione e accettazione di quel mio sentimento, e fu una cosa spiazzante. Man mano che gli incontri andavano avanti, sono nate vere amicizie con alcune di queste persone, ho ascoltato le loro storie e ho capito che il dolore non era una mia esclusiva, e queste amicizie in me generavano anche un forte senso di colpa. Un giorno ho chiamato mia madre per dirglielo: “mamma, non so come ma io mi sto affezionando a queste persone”. E lei mi ha risposto: “In questo momento stai parlando come tuo padre, che andava a trovare queste persone in carcere, ascoltava le loro storie”. Ho capito anche che non oravo mio padre pensando di rispondere alla violenza e chi aveva violato le leggi che lui difendeva, violandole a mia volta. Il mio momento di guarigione definitiva penso sia stato una sera in cui vicino a casa mia, un centro sociale organizzò un incontro con Curcio. Sono andato, non sapevo che reazione avrei avuto. Mi sono fatto largo tra la gente che aveva attorno, gli ho detto chi ero e se si ricordava di mio padre. Ha avuto risposte incerte, ma aveva capito benissimo, mio padre lo conosceva bene, ed era visibilmente spaventato. Gli ho messo una mano sulla spalla mentre indietreggiava e gli ho detto: “Non preoccuparti, volevo solo guardarti in faccia perché sei venuto a 50 metri da casa mia, per me è finita qui”. Ho sentito questa cosa come una grande vittoria”.
A chiudere l’incontro è stata Maddalena Crippa, che ha raccontato la propria esperienza di mediazione e accompagnamento del percorso di giustizia riparativa, e ha concluso: “Per me è stata una esperienza straordinaria, perché ho visto e vissuto la possibilità del cambiamento, che arriva quando ci diamo il tempo, quando assumiamo l’impegno di superare i pregiudizi, la narrazione superficiale, quando usciamo dalle etichette e i recinti nei quali rinchiudiamo la nostra idea delle altre persone, e invece ne accogliamo la complessità, arriviamo a volerle incontrare davvero, ad accettarle e fidarci degli altri. Questo percorso merita di essere raccontato e diffuso, perché ne abbiamo quanto mai bisogno anche per il nostro presente e il nostro futuro”.