Sono quasi sempre maschi, giovani adulti di età compresa tra i 25 e i 35 anni, gli arti orrendamente mutilati, i crani asportati o trafitti da chiodi, i corpi sepolti faccia a terra, spesso legati, parzialmente cremati o devastati in modo cruento. Le chiamano deviant burials, sepolture devianti. Sempre più spesso la ricerca archeologica ci consegna da un passato nemmeno troppo remoto queste tombe anomale in cui sembra sia saltato il nesso di causalità tra morte e pietà.
Eppure in queste pratiche non c’è livore o sete di vendetta: se qualcosa le ha mosse è stato il terrore. Si infieriva sul cadavere in modo così brutale per respingere o prevenire i cosiddetti “revenants”, letteralmente “coloro che ritornano”.
La mostra “Sepolture anomale. Indagini archeologiche e antropologiche dall’epoca classica al Medioevo in Emilia Romagna”, allestita al Museo Civico Archeologico di Castelfranco Emilia dal 19 dicembre al 21 febbraio, illustra una decina di sepolture anomale rinvenute durante scavi diretti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna nel Modenese, a Bologna e a Casalecchio di Reno.
I reperti scheletrici sono esposti con il proprio corredo, in modo da ricreare la situazione di rinvenimento delle tombe. Per mettere in luce i riti e le peculiarità di queste sepolture, che vanno dal IV sec.a.C. al Medioevo, gli archeologi hanno lavorato a stretto contatto con gli antropologi del Laboratorio di Bioarcheologia e Osteologia Forense dell’Università di Bologna.
Che ci si muova nel multiforme universo religioso romano o all’interno della dottrina monoteista cristiana, queste pratiche poco ortodosse ricorrono carsicamente nei rinvenimenti archeologici, rivelando una sostanziale necrofobia, legata alla volontà di impedire al cadavere, in forma corporea o spirituale, di nuocere ai vivi.
La legatura dei cadaveri nella necropoli di età Celtica, lo strano rapporto tra cremazione e calzature in un sepolcreto romano di II-IV secolo, le mutilazioni rituali, le sepolture prone e altre pratiche post-mortem riscontrate in numerose tombe di età tardo romana, i crani chiodati di XII secolo rinvenuti in San Pietro a Bologna, non sono altro che le ingegnose soluzioni inventate dai nostri antenati per proteggersi dai defunti. Si cercava di evitare il loro ritorno ricorrendo ad impedimenti fisici, legando, inchiodando, bruciando, mutilando arti e testa, disorientando il morto per impedirgli di trovare la via di superficie.
Non sappiamo cosa li abbia spinti ad adottare nei confronti di alcuni individui misure così drastiche. I racconti popolari narrano di persone fortemente negative, con una vita spesa ai margini della società: vita che pareva si rifiutasse di abbandonare il corpo persino dopo la morte.
Resta aperto il problema di cosa favorisse la comparsa di queste entità maligne, come venissero riconosciute e in che modo venissero trattate per far cessare le loro azioni. La nascita di un revenant poteva avvenire per cause diverse. Per predisposizione individuale, come nel caso di persone socialmente indesiderate, malfattori, stregoni o di religione diversa da quella comunemente praticata; per predestinazione, come i nati in certi periodi dell’anno, malformati o con la “camicia rossa” cioè il volto coperto dalla membrana amniotica, caratteristiche che candidavano al ritorno dall’aldilà; per le particolari azioni compiute in vita o per le cause della morte, specialmente se repentina, violenta o suicida; infine per essere stati morsi da un revenant divenendolo essi stessi, un tema caro alla fiction piuttosto che alla storia visto che nei racconti folklorici non esiste la figura del vampiro che crea stuoli di fedeli sudditi semplicemente succhiando il loro sangue.
Al momento del trapasso, su queste persone venivano attuate una serie di strategie atte ad impedire il ritorno dall’aldilà: deposizione nella tomba di particolari oggetti con funzione apotropaica, sepoltura non canonica (inumazione del cadavere legato o in posizione prona), manomissione del corpo con inserzione di oggetti appuntiti e amputazioni di vario tipo, distruzione completa del cadavere tramite cremazione.
Ma a volte il Revenant si manifestava a scoppio ritardato, denunciato da una serie di eventi soprannaturali o inspiegabili che potevano essere attribuiti solo a un’entità malvagia. In questi casi, i cadaveri dei sospetti venivano riesumati e poiché, a causa della decomposizione in atto, i loro corpi presentavano tutti i segni dell’attività tipica dei non-morti (membra flessibili, bocca aperta, denti scoperti, gonfiori al ventre causati dai gas della putrefazione), si agiva su di essi con una serie di strategie letali, della più varia natura.
Gran parte di questi riti non lascia tracce a livello archeologico: estrarre il cuore e bruciarlo, percuotere le membra, deporre spine, rovi, reti da pesca nella tomba sono quasi impossibili da determinare. Ma anche il rimedio più celebre, trapassare il cuore con un paletto di legno, può risultare invisibile se non viene sfondato lo sterno del cadavere.
Talora invece, di queste pratiche resta traccia sui reperti ossei. Per assicurare l’effetto mortale dell’intervento, all’azione magico-religiosa si associa spesso l’azione meccanica che avrebbe avuto efficacia anche su un corpo vivo. Gli oggetti taglienti o appuntiti sono sempre efficaci per fermare un revenant, così come la disarticolazione o il taglio dei piedi (per impedirgli di camminare) o la sepoltura prona (per evitare che si faccia strada verso la superficie), per non parlare della decapitazione, un sistema così appropriato e trasversale da funzionare anche coi santi.
La mostra, curata dagli archeologi Luca Cesari, Diana Neri e Jacopo Ortalli e dagli antropologi Maria Giovanna Belcastro, Valentina Mariotti e Marco Milella, è promossa dal Museo Civico Archeologico di Castelfranco Emilia, con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dell’Università degli Studi di Bologna, e in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, il Dipartimento di Scienze Storiche dell’Università di Ferrara, il Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Vicino Oriente dell’Università Cà Foscari di Venezia ed il Dipartimento di Chimica dell’Università di Modena.
Sepolture anomale, Indagini archeologiche e antropologiche dall’epoca classica al Medioevo in Emilia Romagna – Castelfranco Emilia (MO) – Museo Civico Archeologico, Palazzo Piella, Corso Martiri n. 204, dal 19 dicembre 2009 al 21 febbraio 2010. Martedì e mercoledì dalle 10 alle 13; Venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18; Sabato dalle 9 alle 13 e dalle 14 alle 17; Domenica dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 19. L’inaugurazione della mostra è preceduta da una giornata di studio che si svolge il 19 dicembre 2009, nella Biblioteca Comunale di Castelfranco Emilia, a partire dalle ore 9,30
Guida della mostra in vendita presso il Museo. Info 059.959367