Nei giorni scorsi, il Ministro della Cooperazione Riccardi, nel corso di un’audizione alla Camera dei Deputati, ha affermato che si sta valutando la possibilità di allungare da sei mesi ad un anno la validità dei permessi di soggiorno in caso di ricerca di un nuovo lavoro e di introdurre criteri di gradualità nell’applicazione della tassa.
Infatti, in questo momento di grave crisi economica, in caso di perdita del lavoro, sei mesi di tempo possono risultare spesso insufficienti per trovare una nuova occupazione e, in base alle stime della Caritas, dai 250 mila a 350 mila migranti rischiano di diventare irregolari per questo motivo, compromettendo e vanificando così un percorso di integrazione intrapreso in molti casi già da diversi anni.
Queste considerazioni del Ministro Riccardi confermano la rilevanza economica e sociale del lavoro dei migranti, così come alcune recenti ricerche della Caritas-Migrantes su base dei dati INPS e della Fondazione Leone Moressa hanno evidenziato.
Da queste indagini, infatti, risulta che 2 milioni di migranti sono iscritti all’INPS e che, data l’età media tendenzialmente giovane, solo 1 su 25 usufruisce della pensione (per gli italiani il rapporto è di 1 a 5), mentre l’8% percepisce prestazioni a sostegno del reddito (disoccupazione, cassa integrazione, mobilità), in linea con l’incidenza sul totale.
In media però la retribuzione dei migranti non comunitari è decisamente inferiore (-36%) rispetto a quella dei comunitari e degli italiani, differenza che sale al 41% per le donne, per cui forte è l’incidenza del lavoro sommerso.
Inoltre in genere gli immigrati hanno un inquadramento inferiore al titolo di studio conseguito (la metà possiede un diploma o una laurea): meno del 10% lavora come impiegato, quadro o dirigente, mentre la maggioranza è operaio o apprendista.
Di conseguenza, il basso livello medio di reddito, unito al diffuso fenomeno del lavoro nero o irregolare, produce un gettito IRPEF del 4% rispetto a quello complessivo nazionale (quasi 6 miliardi di euro in termini assoluti, 2.800 per contribuente rispetto ai 4.800 degli italiani), con forti differenze a livello territoriale e per Paese di provenienza, e una maggior percentuale di esenzione (il 65% degli stranieri pagano l’Irpef contro il 75% degli italiani).
Alla luce di questi dati, dissento nettamente dalla proposta avanzata dai consiglieri regionali del centro-destra di confermare l’aumento dei costi del permesso di soggiorno introdotto dal governo Berlusconi, sostenendo che spetta anche agli “stranieri” partecipare al risanamento della finanza pubblica (come se si potesse inputare a chi è arrivato solo da pochi anni la responsabilità dell’attuale situazione che sappiamo bene avere cause molto più lontane nel tempo e a livelli decisamente più alti).
Forse il contributo andrebbe chiesto con la stessa forza e determinazione anche a quegli italiani che risultano a basso reddito perchè portano il “frutto del loro lavoro” all’estero o lo rendono invisibile al fisco e che godono ingiustamente di esenzioni e detrazioni.
I duri provvedimenti del governo Monti in termini di tasse e tagli dei costi hanno ricadute sulla vita quotidiana di tutti coloro che vivono in Italia, indipendentemente dalla loro cittadinanza.
Solo un’efficace politica di sviluppo e di rilancio dell’economia, che non è stata messa in atto dalla destra al governo e che ci auguriamo di poter vedere in tempi brevi, può consentire a tutti, italiani e migranti, cittadini e lavoratori, di recuperare reddito e poter contribuire al benessere del Paese in cui abitano, per nascita o per scelta.
(Thomas Casadei – Consigliere Regionale PD)